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Il peso delle parole

05-04-2023 10:10

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Il peso delle parole

Come traduttrice e linguista a volte mi chiedo: il termine originale è neutro o connotativo? Nella lingua di arrivo c'è un equivalente? Altrimenti, che fare?

Da un paio di settimane, la già ricca offerta di podcast del Post ha aggiunto alla sua selezione il podcast Amare parole tenuto da Vera Gheno, linguista, saggista e traduttrice italiana. 

Nel primo episodio, l’esperta del linguaggio ha riflettuto su un aspetto della lingua tanto sottile quanto potente, ossia la differenza tra parole denotative e connotative. Si tratta di una caratteristica della lingua scritta e parlata che prescinde dal paese geografico, infatti le parole denotative “descrivono senza dare un giudizio”, mentre quelle connotative “esprimono un giudizio”, oltre che descriverle. Chi parla opera una scelta più o meno consapevole quando decide se usare l'una o l'altra parola. In ogni caso le parole denotative descrivono semplicemente un oggetto o un concetto, mentre con le parole connotative il parlante può trasmettere una sua idea o sentimento, e quindi anche un giudizio, e soprattutto può suscitarne altrettanti anche in chi ascolta, predisponendo già il ricevente in un certo stato. 

Oltre ad essere un argomento molto interessante, mi ha dato da riflettere su certe situazioni in cui mi sono imbattuta anch'io come traduttrice dietro il computer, ma soprattutto in ambulatorio durante le visite. Traduttori e traduttrici sono prima di tutto linguisti, vale a dire studiosi della lingua – molto spesso la propria – soprattutto da un punto di vista teorico, sistematico e storico. Quindi quando ho scoperto questo podcast sulle parole, la mia natura di linguista nerd ha fatto un salto carpiato dal momento che in giro non si trovano molti approfondimenti strettamente linguistici di questo tipo. 

Capita che in una lingua lo stesso termine venga usato senza riflettere troppo mentre in un’altra lo stesso concetto venga espresso da due termini simili ma connotati in maniera ben distinta. Vediamo un esempio. 

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Durante la prima visita, specialisti e specialiste pongono una serie di domande per raccogliere informazioni sulla sua storia clinica, si tratta dell’anamnesi. Questa fase non solo serve a capire lo stato di salute recente della paziente, ma anche appunto la storia ginecologica passata. Una tra le prime domande poste durante una visita di ostetricia e ginecologia è se le pazienti hanno figli e quanti e la sigla solitamente utilizzata è PARA seguita da 4 cifre. Ad esempio PARA 1001 in cui P indica il numero di parti a termine, con la prima A i parti pre-termine, con R il numero di aborti (che siano spontanei, terapeutici o elettivi) e con la seconda A il numero di figli nati vivi. 

In italiano il termine che indica l’interruzione di una gravidanza è aborto, un termine neutro a cui può seguire l’aggettivo che descrive la tipologia di aborto. Quando interpreto durante una visita di ginecologia e ostetricia, mi assicuro sempre di riportare il messaggio della paziente in italiano più accuratamente possibile facendo molta attenzione alle parole che ha scelto. Viceversa, a volte capita che gli specialisti scrivano in maniera estesa “n aborti” invece che utilizzare la sigla e quindi traducendo mi pongo il problema di come rendere tale termine nella traduzione. 

In inglese infatti esistono due termini per indicare aborto, ossia abortion e miscarriage. Già nel 1985, venne pubblicato un articolo da parte del dottor Beard che affrontava l’argomento dal punto di vista linguistico, in quanto fino a quel momento i medici non facevano differenza tra i due termini, ma era evidente che le implicazioni connotative erano ben distinte. Aveva notato come le pazienti si riferissero sempre all’aborto spontaneo con miscarriage, mentre il termine abortion era utilizzato solo quando c’era stata un’interruzione volontaria. 

Una questione medico-linguistica che tuttavia poteva avere un impatto sulle pazienti: da un lato il termine miscarriage è connotato con un processo involontario e possibilmente non voluto, dall'altra abortion è connotato dalla volontarietà e quindi induzione dell’interruzione di una gravidanza. Secondo la psicologa Chalmers, è stato grazie a quell’articolo che nel Regno Unito si è cominciato a riflettere su come rendere più empatico l’approccio da parte di dottori e dottoresse che smisero di utilizzare i due termini in maniera intercambiabile e iniziarono a fare più attenzione al lessico utilizzato e all’impatto emotivo delle parole sulle pazienti.

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La discussione sulla questione terminologica, e non solo, si è riaccesa a giugno 2022 quando la Corte Suprema americana ha ribaltato la decisione del 1973 che aveva riconosciuto alle donne il diritto di porre termine a una gravidanza, e di fatto ha smantellato 50 anni di protezione legale dell’aborto negli Stati Uniti. In un articolo di settembre dello stesso anno, il Guardian ha raccolto diverse testimonianze di donne statunitensi che si sono rese conto solo allora che quello che per loro era stato un miscarriage, era un abortion a tutti gli effetti. Molte di loro si erano trovate ad abortire per complicazioni come gravidanze ectopiche o malformazioni del feto e ai loro occhi non si trattava tanto di una scelta quanto di una necessità: un diritto che ora è negato in ben tredici stati. Inoltre parlare di aborto spontaneo, può aiutare ad affrontare il tema della perdita evitando però lo stigma che troppo spesso accompagna chi lo sceglie. Ora molte donne si trovano a dover viaggiare centinaia di chilometri per cercare assistenza a seguito di un aborto spontaneo per paura che possa essere mal interpretato e definito invece come aborto elettivo.

Non voglio addentrarmi nelle implicazioni politiche della faccenda, tuttavia è molto interessante notare come due termini connotati diversamente non solo portino a una percezione diversa a livello emotivo, ma possano avere anche un peso concreto con conseguenze legali in determinate situazioni.

 

Ecco quindi un esempio delle scelte che si devono fare durante una traduzione: non basta utilizzare un termine accurato tecnicamente, ma è importante anche soppesare le connotazioni che può avere e cosa significano. Il termine originale è neutro o nasconde un giudizio implicito? Nella lingua di arrivo esiste un termine equivalente? E se non esiste, che fare? È qui che entrano in gioco sensibilità, bravura e professionalità di traduttori e traduttrici! E a voi, quali parole denotative e connotative vi hanno dato filo da torcere?


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Ciao , sono Giorgia!

Mi chiamo Giorgia e sono un'interprete e traduttrice professionista.


Le mie lingue di lavoro sono italiano, inglese, spagnolo e neerlandese.


Sono specializzata nei settori medico-sanitario, della gioielleria e della musicoterapia.

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